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IMBIANCHERIA DEL VAJRO

Utilizzata oggi per workshop, laboratori e mostre temporanee, l’Imbiancheria del Vajro fu costruita nel Cinquecento proprio per provvedere all’imbiancatura dei filati in matassa e delle pezze finite prodotti dagli imprenditori della Corporazione dell’Università dell’Arte del Fustagno. Tuttora al di fuori dal centro di Chieri, in direzione di Torino (l’indirizzo è al 12 di via Imbiancheria), l’attuale complesso polivalente dell’Imbiancheria del Vajro nel XVI secolo era molto distante dalle mura cittadine, perché l’attività che vi si svolgeva era piuttosto maleodorante e richiedeva molta acqua. Acqua cui provvedeva il rio Tepice che scorre in zona.
Quando, grazie al progresso tecnologico, furono cambiate le modalità di candeggio, l’Imbiancheria venne abbandonata. Il suo recupero risale agli anni ’90 del secolo scorso, grazie ad un progetto europeo di valorizzazione delle testimonianze di archeologia industriale. Ora il suggestivo opificio viene utilizzato comespazio espressamente dedicato a eventi, mostre, laboratori e workshop.
All’interno vi sono conservate anche alcune attrezzature tessili, a integrazione e richiamo al Museo del Tessile di via De Maria.


Storia dell’antico opificio

Sui terreni di proprietà delle monache di Sant’Andrea, in Regione Galatea, l’Università del Fustagno fa edificare nel 1573 l’Imbiancheria del Vajro Uno stabilimento di imbiancatura dei filati in matassa e delle pezze finite cui si rivolsero in esclusiva gli iscritti alla Corporazione sino agli inizi del XVIII secolo L’Università del Fustagno si impegnava ad imbiancare le stoffe ad un prezzo equo e a far custodire l’Imbiancheria “da due uomini vigorosi ed idonei, in caso di furti, a risarcire i danni pagando l’affitto alle monache di Sant’Andrea”»
«La fase dell’imbiancatura, tra quelle legate alla trasformazione del cotone, era una delle poche che richiedesse una specifica collocazione. Occorrevano infatti la vicinanza ad un corso d’acqua pulito(il rio Tepice a monte della città) e ampi prati soleggiatiper disporre le pezze ad asciugare.»

Candeggio al prato

«Con questo metodo di imbiancatura, l’edificio ospitava solo un magazzino edelle vasche contenente un miscuglio di cenere e acqua bollente usato per lavare i panni. Insieme alle trasformazioni nelle tecnologie di imbianchimento va di pari passo l’ampliamento dell’edificioNell’Ottocentovengono aggiunte le parti parallele al corso del Rio Tepice mentre, nel primo Novecento, viene costruita la parte superiore fino a contare 12 vani disposti su due piani nel 1920quando l’Imbiancheria è di proprietà degli imbiancatori Eyveaux. E così l’acquista, in quegli anni, Vincenzo Caselli un industriale operante nella tintura dei filati. Porte e finestre vengono arricchite da decorazioni in pietra artificiale di gusto liberty, vengono costruiti due nuovi locali e la nuova facciata dell’edificio (posta a nord) è costituita da ampi finestroni separati da pilastri a vista e dalla ciminiera anch’essa in mattoni a vista. Dal 1963 l’Imbiancheria del Vajro passa ai coniugi De Maria, i quali portano all’interno i telai per una tessitura originale.»

Imbiancatura: l’evoluzione del processo

Si definisce imbiancatura o “sbianca” l’operazione volta a eliminare il colore giallastro proprio delle fibre naturali come il cotone, il lino o la canapa, così da renderle bianchi. Fin dal ‘400 la tela grezza veniva prima bagnata e poi esposta all’aria, distesa su un prato soleggiato. In seguito veniva lavata più volte nelle vasche contenenti il ranno, miscuglio di cenere e acqua bollente.
Un altro sistema consisteva nel mettere a bagno in acqua di fiume le tele e poi lasciarle seccare, distese, su un terreno. In un secondo momento le tele venivano immerse nel ranno per circa 15 ore, dopo di che venivano nuovamente distese sul campo fino a seccare e, in ultimo, ribagnate con l’acqua di fiume. Questo procedimento veniva ripetuto una ventina di volte dopo di che le pezze venivano immerse in mastelli colmi di latte agro o di latte di burro per un giorno. Alla fine le tele venivano lavate e ridistese ad asciugare sul campo. Durante l’800 nel processodi imbiancamento s’inserisce l’impiego del vapore dell’acqua bollente, una misura già adottata in Inghilterra. Come si procedeva? Sopra un fornello veniva posta una caldaia in ferro al cui interno si versava l’acqua per poi disporre le tele da imbiancare. Le tele erano poi innaffiate con una liscivia di soda e sapone. Dopo circa cinque ore le pezze venivano risciacquate in acqua e distese ad asciugare su fili predisposti in luoghi soleggiati. L’imbiancatura artificiale basata sul cloro risale a tempi più recenti. Si inizia marcando la stoffa con un bollo di catrame o nitrato d’argento, vengono quindi cucite insieme le stoffe fino a formare un nastro continuo.
I tessuti sono poi inumiditi e lavati in “apparecchi di sciacquamento” dalla funzione duplice: quando la ruota è infatti in movimento, i tamburi pescano il composto per il lavaggio e contemporaneamente smuovono il tessuto. Successivamente le stoffe sono lavate in e immersi in un bagno acido(acqua e acido solforico). Infine si passa ad un ultimo bucato in un ranno corrosivo; operazione a cui segue una risciacquatura. Conclusa questa prima fase i tessuti sono lasciati riposare in un liquido di imbiancatura per una decina di ore e poi trasferiti in un ranno di soda bollente. Una volta che il tessuto è abbastanza bianco lo si immerge per l’ultima volta in un bagno leggermente acido, si risciacqua e si lascia asciugare la tela. Complessivamente il processo richiede poco più di due giorni

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